riaperto il caso

Omicidio Tinelli-Iannucci: dopo decenni, la pista si riapre con l'ombra di Carminati

Nuove prove scientifiche e vecchi sospetti nel giallo di Milano del 1978: l'inchiesta punta all'eversione neofascista e al boss della Magliana

Omicidio Tinelli-Iannucci: dopo decenni, la pista si riapre con l'ombra di Carminati
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A quasi mezzo secolo da quel tragico 18 marzo 1978, la giustizia torna a interrogarsi sulla morte di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, soprannominato "Iaio", i due giovani di 19 anni assassinati in via Luigi Mancinelli, nel quartiere Casoretto di Milano.

Omicidio Tinelli-Iannucci: la pista si riapre con l'ombra di Carminati

MILANO - Una nuova svolta nelle indagini, fortemente voluta dal giudice per le indagini preliminari, si basa su recenti comparazioni dattilografiche di volantini di rivendicazione e sull'impiego di avanzate tecniche scientifiche per analizzare elementi finora trascurati.

Tra i nomi che tornano prepotentemente alla ribalta, tutti gravitanti nell'orbita dell'eversione nera, spicca quello di Massimo Carminati, il famigerato boss della Magliana coinvolto nell'inchiesta "Mafia Capitale". All'epoca dei fatti, Carminati, nato e cresciuto proprio a Milano, si trovava in città.

Sotto la lente degli inquirenti anche Claudio Bracci, un altro noto esponente neofascista, così come suo fratello Mario. Proprio nell'abitazione di quest'ultimo, gli investigatori avevano rinvenuto in passato fotografie delle due giovani vittime e dei loro funerali. Inoltre, è emerso che Claudio Bracci partecipò a un raduno a Cremona proprio nei giorni del delitto, utilizzando Milano come base logistica.

Le ricostruzioni

Le ricostruzioni dell'epoca narrano di un pomeriggio trascorso da Fausto e Lorenzo tra il problematico parco Lambro, epicentro dello spaccio di eroina, e il centro sociale Leoncavallo. I due ragazzi si muovevano a piedi quando furono intercettati dai loro assassini. Una donna e le sue due figlie, presenti nella zona, furono testimoni oculari e descrissero gli aggressori, seppur con dettagli non del tutto nitidi: uno alto e magro, con capelli scuri e un impermeabile chiaro (identificato con Carminati), un secondo con caratteristiche simili ma con un giubbotto color cammello, e un terzo di cui non fornirono dettagli fisici precisi, ricordando solo l'impermeabile chiaro, come il primo.

L'agguato fu rapido e meticolosamente pianificato, eseguito da mani esperte con una pistola semi-automatica Beretta, un'arma che espelle i bossoli. Tuttavia, sulla scena del crimine non fu ritrovato alcun bossolo. Le testimoni fornirono un dettaglio cruciale: uno degli assassini portava con sé un sacchetto di plastica. Questa pratica, nota negli ambienti della destra eversiva romana come una sorta di "firma", consisteva nell'avvolgere l'arma per raccogliere i bossoli e depistare facilmente le indagini. Anche gli impermeabili indossati dagli aggressori richiamavano l'abbigliamento tipico dei neofascisti in azioni criminali.

Il mistero del berretto

Già negli anni Novanta, il giudice Guido Salvini, che si occupò del caso, era convinto della necessità di concentrare le indagini su queste figure, intravedendo un filo conduttore tra l'esecuzione di Fausto e Iaio e l'attentato alla sede del PCI di via Pompeo Trogo a Roma: stessi mandanti e stessi esecutori.

Un berretto di lana blu, non appartenente alle vittime, fu trovato vicino ai corpi. Un cappello simile era stato visto indossare da un neofascista che, giorni prima, aveva subito un'aggressione al parco Lambro da estremisti di sinistra. Sebbene avesse un alibi parziale per la sera del delitto, confermato solo da alcuni amici, l'uomo scomparve nelle ore successive, dichiarando in seguito di temere per la propria vita.

Il mistero del berretto rimane fitto. Come sottolineato nel decreto di archiviazione del dicembre 2000 firmato dal giudice Clementina Forleo, il reperto non fu mai sottoposto ad accertamenti e, in un momento successivo, risultò irreperibile. Il responsabile dell'Ufficio corpi di reato dichiarò che il cappello era "stato eliminato per motivi di igiene a seguito di alluvioni".

Sulla riapertura del caso

Maria Iannucci, sorella di Lorenzo, assistita dall'avvocato Nicola Brigida, accoglie con cautela la riapertura delle indagini: "Ora si è deciso che si può fare... Ma gli atti sono sempre stati lì... Forse significa che dopo mezzo secolo i tempi sono maturi". Un forte impulso alla ricerca della verità è giunto anche dal sindaco di Milano, Beppe Sala.

Secondo indiscrezioni, i pubblici ministeri avrebbero acquisito elementi di "enorme peso" da altri processi relativi a delitti irrisolti degli anni Settanta, aprendo la strada a una potenziale "reazione a catena" su diversi scenari di morte, coperture e depistaggi.

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